La luce del tramonto filtrava attraverso le persiane dello studio medico. Era l’ultimo giorno di lavoro per il dottor Alberto Giusti, un medico con quarant’anni di esperienza alle spalle. La sua scrivania era ormai quasi vuota, eccetto per una penna stilografica usurata e un vecchio libro consunto: una copia del Giuramento di Ippocrate. L’aveva ricevuto il giorno della laurea e da allora era stato il suo faro guida.

La porta dello studio si aprì e comparve il giovane dottor Riccardo Manni, di appena trent’anni, lo sguardo incorniciato dagli occhiali e le mani incollate al tablet che utilizzava per consultare il portale sanitario ministeriale. Aveva appena terminato una visita e veniva a salutare il collega più anziano.

«Dottor Giusti, posso disturbarla un momento?» chiese Riccardo, senza alzare troppo lo sguardo dal dispositivo.

Alberto sorrise con un velo di malinconia. «Disturbami pure, Riccardo. In fondo, ormai, sono fuori gioco.»

Riccardo si accomodò, posando il tablet sulla scrivania, ma con un evidente nervosismo. «Stavo pensando… Da domani prenderò in mano alcuni dei tuoi pazienti, quelli che non hai avuto il tempo di dimettere o trasferire. Mi chiedevo se avessi consigli particolari.»

Alberto si prese qualche secondo per rispondere. «Consigli? Non sono sicuro che i miei consigli ti servano, Riccardo. Tu sei un medico diverso da me. Le cose sono cambiate, lo so.»

Riccardo accennò un sorriso. «In effetti, oggi lavoriamo in un sistema più… strutturato, più tecnologico. Sai, la digitalizzazione ci consente di ottimizzare il lavoro, gestire le terapie in modo standardizzato, raccogliere dati utili per il Ministero. È un progresso, non credi?»

Alberto alzò un sopracciglio. «Un progresso, dici? Forse. O forse no. Vedi, Riccardo, io non mi sono mai considerato un esecutore. Ho sempre visto il paziente come una persona, non come un caso clinico o un numero in un sistema.»

Riccardo annuì, ma sembrava a disagio. «Lo capisco, ma oggi ci sono protocolli ben definiti, linee guida da seguire. Non possiamo permetterci di improvvisare. Ogni prescrizione, ogni terapia deve essere giustificata e documentata. È una questione di efficienza e di sicurezza. La medicina non è più quella di una volta.»

Alberto si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia. «E pensi che io non abbia mai seguito le linee guida? Pensi che la sicurezza dei miei pazienti non fosse una priorità? Ho sempre studiato, aggiornato le mie conoscenze, cercato di fare del mio meglio. Ma non ho mai permesso che un protocollo sostituisse il dialogo con il paziente, l’ascolto delle sue paure, delle sue speranze. Dimmi, Riccardo, quando è stata l’ultima volta che hai parlato davvero con un paziente, senza guardare uno schermo?»

Riccardo esitò. «Non è così semplice, dottore. La pressione del sistema sanitario, i numeri da rispettare, le tempistiche… A volte non c’è il tempo per fermarsi. E poi, oggi ci si affida ai dati. Sono i numeri che ci guidano.»

Alberto scosse la testa con un sospiro. «I numeri non raccontano tutta la storia, Riccardo. Ti faccio un esempio: Maria Rossi, una delle mie pazienti storiche. Novant’anni, artrite cronica, dolori persistenti. Secondo il protocollo, avrei dovuto somministrarle antidolorifici potenti, magari oppioidi. Ma ho scelto di ascoltarla. Ho capito che voleva solo qualcuno che la aiutasse a convivere con la sua condizione, che la incoraggiasse a mantenersi attiva. Le ho prescritto fisioterapia dolce, un integratore naturale, e le ho suggerito di camminare ogni mattina con la nipote. Non ho curato solo il suo corpo, Riccardo, ma anche il suo spirito. E sai una cosa? È ancora qui, dopo dieci anni, a passeggiare ogni mattina.»

Il giovane medico abbassò lo sguardo, pensieroso. «Non sto dicendo che il tuo approccio non sia valido. Ma il mondo è cambiato. Oggi si parla di medicina basata sull’evidenza, sull’efficienza, sulla sostenibilità. Il nostro compito è fare ciò che il sistema richiede.»

Alberto si sporse in avanti, puntando un dito verso il collega. «Ed è proprio qui che sbagli, Riccardo. Il nostro compito non è obbedire al sistema. È servire i pazienti. Curarli, capirli, rispettarli. Il Giuramento di Ippocrate non parla di numeri, né di protocolli. Parla di persone. Non dimenticarlo mai.»

Ci fu un lungo silenzio tra i due. Riccardo guardava Alberto, come se stesse cercando di assorbire quelle parole. Poi, con un filo di voce, chiese: «Non credi che ci sia un modo per conciliare le due cose? La medicina di ieri e quella di oggi?»

Alberto sorrise, ma questa volta con un’espressione di speranza. «Forse sì, Riccardo. Ma richiede coraggio. Il coraggio di non lasciarti trasformare in un semplice ingranaggio. Ricorda sempre che il cuore della medicina non è nella tecnologia, né nei protocolli. È nelle relazioni umane. È lì che troverai la vera cura.»

Riccardo annuì lentamente. Prese il tablet, ma questa volta lo posò con cura sulla scrivania, senza accenderlo. Alzò lo sguardo verso Alberto.

«Forse hai ragione, dottore. Forse è ora che cominci a guardare meno lo schermo e di più le persone.»

Alberto si alzò, gli tese la mano e con un sorriso che era un misto di nostalgia e orgoglio, concluse: «Ecco, Riccardo. Se riuscirai a farlo, saprò che sto lasciando la medicina in buone mani.»

Il tramonto illuminava ancora la stanza, ma ora c’era una luce diversa. Non proveniva dal sole, ma da quel piccolo momento di connessione umana, di passaggio di valori, tra il passato e il futuro.